Lo scorso 20 febbraio, durante il Concistoro straordinario, preparatorio al sinodo di ottobre sulla famiglia, il cardinal Walter Kasper ha affermato che «tra la dottrina della Chiesa sul matrimonio e sulla famiglia e le convinzioni vissute di molti cristiani si è creato un abisso» ed ha proposto di legittimare sul piano canonico e dottrinale una prassi, che si va diffondendo sempre di più nella Chiesa: l’amministrazione della comunione ai divorziati risposati, con la logica conseguenza del riconoscimento delle loro successive nozze.
Il card. Kasper, nella sua relazione, non si è chiesto come sia nata e come si sia sviluppata, negli ultimi decenni, questa prassi antitetica alla dottrina della Chiesa; non si è domandato quali siano le idee che l’hanno provocata e gli uomini che l’hanno promossa. Egli riduce la storia ad un flusso impersonale di eventi e sembra credere che nel rapporto antagonistico tra la Chiesa e la società, la Chiesa debba inseguire le trasformazioni della società secolarizzata, piuttosto che cercare di convertirla. L’ideale di una società integralmente cristiana è abban- donato, perché la fede, privata dei suoi preamboli razionali, è ridotta a lievito sentimentale di un mondo che si auto-costruisce indipendentemente dalla filosofia del Vangelo. Il ruolo della Chiesa è dunque di benedire tutto ciò che emerge dalla realtà sociologica, a cominciare dalle convivenze extramatrimoniali.
Ben diversi sono gli insegnamenti della storia e del Magistero della Chiesa. All’inizio dell’era cristiana il divorzio era considerato tanto dai giudei che dai pagani un atto perfettamente legittimo. Ma la Chiesa, fin dall’inizio della sua missione, annunziò l’indissolubilità del matrimonio, formulata da Gesù stesso con parole che non potranno mai essere cancellate:
«Avvicinatisi alcuni farisei Gli domandarono, per tentarlo, se sia lecito a un marito ripudiare la moglie. Egli rispose: ‘Che cosa vi ha comandato Mosé?’ Quelli dissero: ‘Mosé ha permesso di scrivere un atto di divorzio e di ripudiare’. Ma Gesù replicò: ‘è a causa della vostra durezza di cuore che egli ha scritto per voi questo precetto. Ma dal principio della creazione Dio li fece maschio e femmina: per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e saranno i due una carne sola. Sicché non sono più due, ma una carne sola. L’uomo dunque non separi ciò che Dio ha unito» (Marco, 10, 2-10).
Il matrimonio, insegna il Vangelo, fu istituito da Dio come l’unione indissolubile tra un uomo e una donna, destinata alla propagazione del genere umano. Il popolo eletto, a causa della sua infedeltà, arrivò al punto di praticare il divorzio e la poligamia, ma Gesù restaurò il legame coniugale nella sua purezza originaria e lo elevò alla dignità di sacramento.
Fin dai primi secoli sia la Chiesa d’Occidente che quella di Oriente contrapposero la concezione del matrimonio indissolubile alla pratica del divorzio, ammessa dalle leggi dell’Impero romano. Dopo la caduta dell’Impero d’Occidente, la Chiesa di Roma mantenne la sua dottrina e, quando i popoli barbarici invasero l’Occidente, li convertì al matrimonio cristiano. I Patriarchi di Costantinopoli assunsero invece un atteggiamento remissivo nei confronti di Giustiniano e dei suoi successori, che pur dicendosi cristiani, conservarono il divorzio nelle leggi civili dell’Impero. In questa prima fase storica, la Chiesa d’Oriente continuò a professare l’indissolubilità, ma cessò di applicare i canoni disciplinari contro i divorziati risposati. Essa tollerava nei fatti ciò che condannava sul piano dei princìpi.
I patriarchi di Costantinopoli, al contrario dei Pontefici romani, non osarono affrontare gli imperatori, per convincerli ad assumere un atteggiamento coerente con la dottrina cristiana del matrimonio. La prassi pastorale dei divorziati risposati iniziò a divenire una regola, tanto che nel IX secolo le cause di divorzio stabilite dal codice di Giustiniano furono inserite nel Nomocanone della Chiesa bizantina e il patriarca Alessio e i suoi successori, soprattutto dopo lo scisma d’Oriente del 1054, elevarono questa prassi a principio, legittimando ufficialmente il divorzio nella Chiesa bizantina. All’unica causa valida, l’adulterio di uno dei coniugi, se ne aggiunsero molte altre già prima della caduta di Costantinopoli in mano ai Turchi. Oggi l’accettazione del divorzio costituisce uno dei principali punti di separazione dottrinale tra la Chiesa ortodossa e quella romana.
Tra il IX e il X secolo, in seguito all’influenza bizantina, la pratica del divorzio si diffuse anche nelle chiese franche e anglosassoni, che per un certo periodo permisero il ripudio della moglie in seguito ad adulterio. In quegli anni la Chiesa di Occidente attraversò una grave crisi morale. Ma dal monastero di Cluny partì la grande riforma ecclesiastica dell’XI secolo. I monaci di Cluny, san Pier Damiani e san Gregorio VII, che di questa riforma fu il campione, reagirono con vigore contro il divorzio, la simonia, il concubinato dei preti, avviando una profonda rinascita spirituale della società.
La Chiesa d’Oriente, nel corso dei secoli, adeguò i suoi principi alla prassi, la Chiesa romana impose la coerenza tra il comportamento e i princìpi. Il conflitto tra il Papa Clemente VII e il re di Inghilterra Enrico VIII, che aveva divorziato dalla legittima moglie Caterina d’Aragona e risposato l’amante Anna Bolena, dimostrò al mondo come la Chiesa cattolica, pur di rimanere fedele alle parole del Signore, fosse disposta a tollerare tutto, anche l’apostasia di un regno. Il vincolo matrimoniale non può essere sciolto da nessuna autorità non solo civile, ma neppure ecclesiastica.
Bisognerà attendere il Concilio Vaticano II per sentire un vescovo, Elias Zoghby, Vicario patriarcale dei Melchiti, chiedere alla Chiesa cattolica, il 29 settembre 1965, di introdurre il divorzio, seguendo l’esempio della Chiesa d’Oriente. Contro mons. Zoghby intervenne fermamente l’allora monsignore, poi cardinale Charles Journet, che affermò: «Il significato di questo intervento non sarebbe forse come un invito alla Chiesa cattolica a discendere la china, in cui si sarebbe incamminata la Chiesa sorella ortodossa? Non equivarrebbe a chiedere di trasformare la sua fede, di rinunciare a una dottrina da lei espressamente letta nei testi di tre evangelisti e in due delle più importanti lettere di Paolo; dottrina raccolta come eredità della fede e della pratica delle prime generazioni cristiane e che essa aveva saputo difendere contro venti e maree per tutto il Medioevo, lottando nell’intimo del cuore dei suoi figli contro quello spirito che bisognerà sempre chiamare con il Vangelo ‘spirito del mondo’?» (Il matrimonio indissolubile, Paoline, Roma 1968, pp. 45-46).
Questi interrogativi risuonano oggi e ci interpellano. Dovremmo dunque voltare le spalle all’insegnamento del Vangelo e convertirci allo “spirito del mondo”? Durante il Concilio, la richiesta del patriarca Zoghby parve isolata, ma cinquant’anni dopo il card. Kasper la ripropone al Papa ed a tutta la Chiesa.