Susanna Tamaro giudica le chiese moderne

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Susanna Tamaro è una scrittrice italiana autrice di romanzi di grande successo, da cui sono stati tratti anche dei film. Non è cattolica e ha preso talvolta posizioni che divergono o contraddicono la morale cattolica. Ma più di una volta è riuscita a rompere il conformismo dilagante con interventi che mostrano una forte sensibilità verso la dimensione trascendente della vita. La pandemia in corso è stata per lei l’occasione di un articolo su “Il Corriere della Sera” del 7 febbraio, di cui vorrei citare alcuni passi.

Scrive Susanna Tamaro: “Siamo schiacciati dal nostro destino, non riusciamo a vedere nessuna luce di speranza all’orizzonte. In fondo non siamo molto diversi da Atlante costretto a portare sulle spalle il Cosmo. Mentre lui guardava a terra noi, nella stessa posizione, scrutiamo ossessivamente i nostri apparecchi elettronici cercando una qualche forma di sollievo all’invisibile peso che ci curva la schiena. Qual è il peso che opprime con sempre più sottile potenza la nostra vita di Sapiens moderni? È la mancanza di una dimensione trascendente. Siamo figli del Caso e schiavi del Tempo, e questa condizione ci costringe ad assumere sulle nostre spalle tutto il peso del mondo”.

Aggiunge la scrittrice: “In questi anni ho viaggiato molto per l’Italia e molte volte, nell’imbattermi nella pletora di orribili chiese moderne edificate nel dopoguerra, mi è capitato di domandarmi: sarebbe mai possibile che qualcuno si convertisse qui dentro o, per lo meno, che venisse sfiorato dall’idea che, dietro il mondo materiale, ne esista un altro la cui concretezza si manifesta nel mistero della bellezza? Chi ha deciso, progettato e finanziato questi abomini architettonici si è mai domandato se avesse voluto sposarsi, assistere a un battesimo o celebrare il funerale di una persona cara in un luogo del genere? L’orrore che provo non è però un orrore intellettuale, ma un orrore che ferisce direttamente il cuore perché il brutto, il disarmonico e lo sgradevole sono la negazione stessa del trascendente”.

Così continua: “Una decina di anni fa, tormentata da questo rovello, ho chiesto a un importante cardinale con il quale mi trovavo a cena quali fossero le ragioni di questa abominevole deriva che, in un Paese come il nostro, fa particolarmente male data l’enorme quantità — dalle pievi, alle cappelle, alle cattedrali — di meravigliose chiese edificate nel corso della storia. Si è trattato, mi spiegò, di una tendenza nata negli anni Sessanta con il boom economico, con l’edificazione di nuovi quartieri. Si era pensato che, dato che l’uomo moderno passava il suo tempo tra fabbriche, garage e brutti edifici tirati su in fretta e furia, bisognava creare delle chiese che fossero simili al mondo che li circondava, in modo che si potessero sentire a casa, senza considerare che questi luoghi non avrebbero potuto suscitare altro che un progressivo allontanamento dalle realtà che si presentavano complementari all’orizzontalità del mondo.

Va detto però che questa tendenza, quella di cui parla lo sconosciuto cardinale è una conseguenza della cosiddetta “apertura al mondo” del cosiddetto “aggiornamento”, introdotto nella Chiesa dal Concilio Vaticano II. Se non si dice questo, non si va alla radice del problema. La Tamaro afferma poi di aver letto, con gioia e sollievo Disegnare il sacro, un recente saggio di Christiano Sacha Fornaciari, pubblicato dalle edizioni Lindau rivendica il ruolo della luce nello spazio liturgico cristiano.

Fino al ventesimo secolo, ricorda l’autore di Disegnare il Sacro, ogni epoca ha avuto un’architettura adeguata al suo stile musicale e alla sua teologia: l’architettura romanica e il gregoriano si riflettono l’una nell’altro e “mentre il canto sale, favorito dagli archi a tutto sesto e le grandi absidi semicircolari, le fonti di luce naturale illuminano i luoghi della proclamazione della Parola». (…). Tutto nella cattedrale gotica è volto al totale coinvolgimento emotivo dei fedeli”.

Ed ora? – si chiede Susanna Tamaro – A quale dimensione ci conduce la musica di queste chiese moderne? A quella dello scoramento: voci per lo più incolte che cantano, seppur con fervore, come se partecipassero a una scampagnata, vivaci orchestrine giovanili con tanto di chitarre e batteria che si spengono subito dopo, senza lasciare traccia nell’animo di chi ha assistito alla funzione, se non, forse, una forma di epidermica allegria. La dimensione della fraternità è sicuramente importante, ma quando quella trascendente si lega unicamente a questo, alla prima crisi, al primo impatto con l’asperità della vita, la fede che si credeva di possedere si dissolve come neve al sole.

La solitudine in cui ci troviamo a vivere – continua – è la solitudine dell’abbandono del sacro perché, paradossalmente, la fede nell’Incarnazione non è più in grado di accompagnarci in una dimensione che ci apra all’interrogazione e ci spinga a trovare delle risposte all’inquietudine che, ontologicamente, ci appartiene. Frastornati dalle immagini, sballottati in un mondo che ignora le ragioni profonde dell’esistere, tanto più in un momento grave come questo, com’è possibile riconquistare la stabilità profonda che ci giunge dalla contemplazione del mistero?

I cubici ecomostri, le astronavi, le vele cementizie, i campanili siderurgici che, come un malefico cancro, ormai popolano il nostro Paese umiliando, con la loro aggressiva bruttezza, non solo i credenti ma chiunque vi passi anche casualmente accanto, ci parlano della cecità spirituale dei progettisti e dell’ancora più grave cecità dei committenti. È la natura, con le sue forme armoniose, a suscitare in noi lo stupore che ci porta alle soglie del sacro, e la natura non contempla mai la rigidità geometrica che ci viene riproposta in questi moderni manufatti. Se geometria c’è, se matematica c’è — e ce n’è molta, in natura — è sempre sotto il segno dell’armonia”.

Nel suo articolo Susanna Tamaro cita un episodio della vita di Edith Stein che, da filosofa atea, entrò per caso in una piccola chiesa e venne folgorata dalla visione di un’anziana donna che pregava in solitudine con le borse della spesa accanto. “Lì intravide un’invisibile confine: il confine del Fanum, del Luogo Sacro, un luogo sospeso nel tempo, dove era possibile raccogliersi in un qualsiasi giorno feriale ed entrare in un intimo dialogo con l’eterno. Fu l’inizio della sua conversione”.

La conversione di santa Edith Stein ricorda quella dello scrittore francese Paul Claudel, studente incredulo, che vagando per le strade di Parigi, la sera di Natale del 1886, entrò nella Cattedrale di Notre-Dame, mentre il coro stava cantando il Magnificat. “In quel momento – ricorda – capitò l’evento che domina tutta la mia vita. In un istante il mio cuore fu toccato e io credetti. Credetti con una forza di adesione così grande, con un tale innalzamento di tutto il mio essere, con una convinzione così potente, in una certezza che non lasciava posto a nessuna specie di dubbio che, dopo di allora, nessun ragionamento, nessuna circostanza della mia vita agitata hanno potuto scuotere la mia fede né toccarla”.

Paul Claudel comprese quella sera, in un lampo, con invincibile evidenza, che la vita di ognuno di noi si spalanca davanti a una inesorabile alternativa: l’amore infinito di Dio o la dannazione eterna. Egli ricorda ancora: “Era a me, Paul, che egli si rivolgeva e mi prometteva il suo amore. Ma, nello stesso tempo, se non lo seguivo, mi lasciava la dannazione come unica alternativa. Ah, non avevo bisogno che mi si spiegasse che cosa era l’Inferno: vi avevo trascorso la mia stagione. Quelle poche ore mi erano bastate per farmi capire che l’Inferno è dovunque non c’è Cristo. Che me ne importava del resto del mondo, davanti a quest’Essere nuovo e prodigioso che mi si era svelato?”. Parole che nessuno più pronuncia: la conversione a Cristo o la dannazione eterna. Ciò vale per la vita degli uomini ma anche per quella della società: e se l’armonia delle cattedrali antiche prefigura la bellezza del paradiso, l’orrore delle chiese moderne ci fa intravedere il gelo e la tristezza infinita dell’inferno.

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