(di Davide Greco su Catholic.net del 30/12/2011) È uscito da appena qualche mese, ma ha già creato un acceso dibattito. Apologia della Tradizione, il nuovo libro di Roberto De Mattei, è un testo snello di circa 160 pagine, scritto in continuità a “Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta”. Entrambi sono pubblicati da Lindau, casa editrice torinese fra le più attive in ambito cattolico.
Il Concilio Vaticano II è, in questi anni, al vaglio di un’intensa analisi. Le puntualizzazioni hanno ripreso vigore dopo il famoso discorso di Benedetto XVI a Ratisbona (22 dicembre 2005), nel quale si fa riferimento all’ermeneutica della continuità (che tende a mitigare gli effetti del Concilio alla luce della Tradizione) e della discontinuità (che invece tende a preferirne gli aspetti innovativi).
Quando si parla di ermeneutica si finisce sempre per complicarsi la vita, perché non è un lemma che si possa spiegare in due parole. Ermeneutica è termine complesso ma, nella riflessione filosofica del XX secolo e in particolare di Gadamer, vale come “prospettiva strutturante”, “interpretazione universale” che vincola il soggetto pensante (l’uomo) alle impostazioni culturali e di metodo della propria epoca.
Esistono ermeneutiche diacroniche che si sono distribuite nel tempo, ed ermeneutiche sincroniche che convivono in uno stesso periodo. Diciamo subito che nessuna ermeneutica è definitiva, né infallibile ma sono tutte, semplificando terribilmente, dei “punti di vista”. Va da sé che, fra di loro, le “ermeneutiche” non si capiscono: forse dialogano, ma non giungeranno mai alla piena comprensione dell’Altrui, perché o la si pensa come X e allora non si può capire Y se non in termini di opposizione e adattamento, oppure la si pensa come Y e il gioco si ripete al contrario.
Detto tutto questo, l’ermeneutica della continuità e quella della discontinuità convivono ora in uno stesso tempo, e si sono trovate in conflitto perché, pur avendo il loro motivo d’essere, possiedono punti di vista diametralmente opposti sul deposito della Fede. Almeno fino a quando uno o più documenti del Magistero non faranno chiarezza.
Precisazioni autorevoli sono giunte di recente anche da Fernando Ocáriz, per il cinquantennale dell’indizione del Concilio (articolo del 2 dicembre su Osservatore Romano), al quale rinvio, e che sottolinea almeno tre punti importanti:
1. “Il concilio Vaticano II non definì alcun dogma, nel senso che non propose mediante atto definitivo alcuna dottrina. Tuttavia […] non significa che esso possa essere considerato «fallibile» nel senso che trasmetta una «dottrina provvisoria»”;
2. “Non tutte le affermazioni contenute nei documenti conciliari hanno lo stesso valore dottrinale e quindi non tutte richiedono lo stesso grado di adesione”;
3. Di fronte alle difficoltà che possono trovarsi per capire la continuità di alcuni insegnamenti conciliari con la tradizione, l’atteggiamento cattolico […] è quello di cercare un’interpretazione unitaria. Non soltanto il Vaticano II va interpretato alla luce di precedenti documenti magisteriali, ma anche alcuni di questi vengono meglio capiti alla luce del Vaticano II.
Ciò non è niente di nuovo nella storia della Chiesa. Si ricordi, a esempio, che nozioni importanti nella formulazione della fede trinitaria e cristologica (hypóstasis, ousía) adoperate nel concilio di Nicea I furono molto precisate nel loro significato dai concili posteriori”.
Il prof. De Mattei, ordinario di Storia Moderna e Storia del Cristianesimo, presso l’Università Europea di Roma, può essere tranquillamente definito un campione dell’ermeneutica della continuità. E l’ultimo punto di Ocáriz sembra descrivere bene le intenzioni del suo nuovo lavoro: “Ciò non è niente di nuovo nella storia della Chiesa”. Il suo è un libro da leggere così come è stato concepito, altrimenti se ne perde il senso. Dall’inizio alla fine, senza cedere alla tentazione della “scorribanda” letteraria. È un’opera che sgretola pagina dopo pagina convinzioni e certezze monolitiche, ma lo fa in progressione come in una partita a scacchi.
Il libro è suddiviso in due parti: la prima propriamente storica, la seconda con precisi riferimenti teologici.
De Mattei fa il suo mestiere di storico prendendo spunto da due testi della Storia della Chiesa. Il primo è la Storia universale della Chiesa [1907-11, ma iniziata poco dopo il 1870] del cardinale Josef Hergenrother, il secondo è la Storia dei Papi dalla fine del Medioevo [1886] di Ludwig von Pastor. Per chi si chiedesse come mai, oggi, uno storico di livello faccia riferimento ad opere in parte datate, la risposta è duplice.
Innanzitutto queste due opere non risparmiarono di descrivere nessuna delle pagine oscure della storia della Chiesa, tanto da portare in chiaro e in luce tutte le diatribe e le eresie nate anche in senso al papato. In secondo luogo, e qui il messaggio è da leggere fra le righe, la scelta di De Mattei è ricaduta proprio su testi datati: come a dire, non c’è bisogno della modernità per riflettere sugli “sbagli” della Chiesa, perché già alla fine del secolo scorso era in corso una rilettura critica dei testi e dell’ufficio papale.
Per di più, non solo questi due ampi studi non sono mai stati ostacolati da un cattolicesimo oscurantista, ma valsero persino a Hergenrother la nomina a cardinale, come giustamente si sottolinea in nota a [p.11]: “Leone XIII, in riconoscenza dei suoi meriti, lo creò cardinale nel 1879, nominandolo prefetto dell’Archivio Pontificio”.
La prima parte del libro è un buon riepilogo di tutti in conflitti, le eresie, i papi sconcertanti che si sono succeduti nel corso dei secoli (per i quali si può vedere la recensione di Cristina Siccardi). Sembrerebbe persino scritto da un oppositore. Invece non è così.
Nella seconda parte, De Mattei affida buona parte delle sue riflessioni teologiche al domenicano Melchor Cano che, con il suo De locis theologicis del 1562 (un anno prima della conclusione del Concilio di Trento), “contribuì a ricostruire la teologia della Chiesa dopo le devastazioni operate dal protestantesimo” [p.87]. Il testo di Melchor Cano si può trovare in versione latina a questo indirizzo o in italiano qui in un breve estratto.
Secondo una prassi retorica tipica della sua epoca, ma che ovviamente affonda le radici nei più antichi topoi di Aristotele, Cano individua dieci loci in cui c’è sì (al primo posto) la Sacra Scrittura e (al secondo) la Tradizione, ma in cui il grande assente è il Magistero, sostituito da “l’autorità della Chiesa Cattolica” [p.88].
Magistero assente o non ancora definito? De Mattei si affretta a spiegare questa mancanza. Il termine Magistero ha iniziato la sua diffusione in teologia solo nel XIX secolo. All’epoca di Cano non poteva essere un luogo teologico perché: “esso non è un “luogo” né un “soggetto” teologico, ma una funzione esercitata dal Papa, dai Concili e dalla Chiesa docente all’interno del potere di giurisdizione” [p.95].
E con questa definizione si entra nel vivo della discussione condotta dal professore romano.
Ben nota è la tripartizione delle Fonti della Rivelazione: la Sacra Scrittura, la Tradizione, il Magistero. Ma se la Scrittura è ben identificabile con i libri canonici, meno semplice è la distinzione fra “la Tradizione (fonte di rivelazione) e il Magistero vivo della Chiesa (custode e interprete della divina parola)” [p.94].
Questa imprecisione fu aumentata, secondo De Mattei, dalla Costituzione Dogmatica Dei Verbum, in particolare al punto 10, che “crea gravi confusioni” [p.108], nel quale si intesero come apparentemente unite le tre fonti: “la sacra Tradizione, la Sacra Scrittura e il magistero della Chiesa, per sapientissima disposizione di Dio, sono tra loro talmente connessi e congiunti che nessuna di queste realtà sussiste senza le altre”.
Il punto 10 è particolarmente importante perché, non aggiungendo chiarezza, lascia spazio anche alla dolentissima nota della disobbedienza [p.125-129], soprattutto se insieme ad altri documenti non è sostenuto dalla Tradizione. Se non altro, dato che non ci può essere progresso nella dottrina (la Tradizione e il depositum fidei impediscono la “novità”) ma solo nella sua conoscenza, con le definizioni poco chiare si va in controtendenza rispetto a quanto ribadito da Pio XII nell’enclica Humani generis [1950]: “è del tutto falso il metodo con cui si vorrebbero spiegare le cose chiare con quelle oscure; che anzi è necessario che tutti seguano l’ordine inverso”.
Ancora più evidente diviene il perno su cui fa leva De Mattei, quando [p.126] cita il teologo Claudio Garcìa Extremeno laddove dice che il senso comune dei fedeli (sensus fidei) deve “obbedire pienamente alle ultime decisioni di esso [Magistero], quando sono espresse con chiarezza”.
Tenendoci alla chiarezza, il libro percorre in diverse pagine la definizione del Magistero, grazie all’analisi comparata di testi, fino a giungere alla discussione sull’infallibilità del Papa (o meglio, del suo ufficio) e dei concili ecumenici.
Il Magistero è il munus docendi, l’ufficio di insegnare della Chiesa, e “a certe condizioni, gode del carisma dell’infallibilità” [Blanco-Cirillo, Cultura & Teologia, Ares, p. 186, in particolare l’infallibilità è trattata nella cost. dogm. Lumen Gentium, n.25].
Il Magistero, come molti sanno, può essere straordinario e solenne, oppure ordinario e universale.
Quello straordinario e solenne “si esercita quando i vescovi, in unione con il loro capo visibile, mediante un atto collegiale, come nel caso dei Concili ecumenici, proclamano una dottrina, o quando il Pontefice Romano […] proclama una dottrina ex cathedra” [Blanco-Cirillo, p.188]. Negli ultimi sette secoli gli insegnamenti ex cathedra sono stati solo tre: la visione beatifica delle anime nel 1336 (Benedetto XII), l’Immacolata Concezione nel 1854 (Pio IX) e l’Assunzione del 1950 (Pio XII).
Come già ricordava Ferndando Ocáriz nel suo articolo, il Vaticano II non propose nessun dogma mediante atto definitivo. Ed è su questo punto che De Mattei scava.
Invece “per poter parlare di Magistero ordinario e universale infallibile occorre che il consenso dei vescovi abbia come oggetto un insegnamento proposto come certamente rivelato o come certamente vero indubbio, tale da richiedere un assenso pieno e irrinunciabile” [Blanco-Cirillo, p.188]. È un insegnamento che viene esplicitato, ma che è sempre esistito nella Tradizione, senza interruzioni, ovunque. Un esempio di questo tipo è l’esclusività del sacerdozio maschile, così come definito nella Lettera Apostolica Ordinatio Sacerdotalis di Giovanni Paolo II (1995).
Insomma, se le interpretazioni del Magistero non sono perfette in chiarezza, non attingono dalla Tradizione e sopratutto non si definiscono come infallibili, per De Mattei c’è poco da fare. Non possono che condurre alla (apparente) disobbedienza. “Il sensus fidei può spingere i fedeli, in casi eccezionali, a rifiutare il loro assenso verso alcuni documenti ecclesiastici e persino a porsi, di fronte alle supreme autorità, in una situazione di resistenza o di apparente disobbedienza. La disobbedienza è solo apparente perché in questi casi di legittima resistenza vale il principio per cui bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini (At. 5,29)” [p.126].
È già successo, dice lo storico, in tutta la storia della Chiesa. E tutta la prima parte del libro serve proprio ad introdurre e a “mettere le mani avanti” su questo punto. Così successe nel IV, poi nell’XI sec., nel quale “due piaghe desolavano la Chiesa […] la simonia e la dissolutezza morale del clero” [p.43], o nel XV, in cui: “l’immoralità del clero era così diffusa e grande, che si levarono delle voci per chiedere il matrimonio dei preti” [p.61]. In tutti questi casi, però, “la fede fu mantenuta da una minoranza di santi e indomiti vescovi […] e soprattutto dal popolo fedele, che non accompagnava le diatribe teologiche ma conservava, per semplice sensus fidei, la buona dottrina” [p.25].
Il nocciolo della questione, se così possiamo definirlo, è nella definizione e nel rapporto fra la Chiesa docente e la Chiesa discente, che De Mattei riprende più volte nel corso del libro [pp. 25-28; 105; 113-114]. La Chiesa nella sua totalità è divisa in due organi: una parte insegnante (docens) e una parte insegnata (discens). Solo alla parte docente spetta il potere di insegnare e coincide quindi sia con la funzione del Magistero, sia con l’insieme dei Pastori, vescovi e cardinali ivi compreso il Papa. Mentre alla parte discente, costituita da tutti i fedeli, spetta il compito di ricevere e conservare la Rivelazione.
Fu proprio la parte discente, come già testimoniò il cardinale J.H. Newman nel suo studio su Gli ariani del IV secolo, a perseverare e mantenere il dogma della divinità di Cristo. Non così fece il corpo dell’episcopato, che “compromisero od oscurarono la verità rivelata”.
Allo stesso modo ci sono due tipi di infallibilità. Una è attiva ed è quella della Chiesa docente “esercitata nel Magistero straordinario e ordinario”, l’altra è passiva ed è quella della Chiesa discente “nel credere queste stesse verità”. All’interno del ruolo di testimonianza degli insegnamenti della Tradizione, la Chiesa nel suo insieme non può errare ed è dunque infallibile. De Mattei utilizza anche una citazione dal Quodlibet di S. Tommaso d’Aquino: “è impossibile che il giudizio della Chiesa universale sia errato in quello che si riferisce alla fede” [p.115].
Con una panoplia simile di argomenti a fare da supporto, la sfida non può essere che di quelle più alte: un richiamo allo stesso Papa di intervenire su questo tema, attraverso gli ampi strumenti di cui dispone, e porre rimedio alle applicazioni improprie del Vaticano II. Questo attraverso anche “l’applicazione di sanzioni penali contro tutti coloro che rifiutano la Tradizione e mettono in discussione la Verità rivelata” [p.150]. De Mattei sa che la partita potrebbe giocarsi su un terreno ostile e solitario, tanto da appellarsi alla fine al modello di Maria Vergine che “sola mantenne la fede, nel sabato che precedette la Risurrezione”.
Apologia della Tradizione è un saggio che difficilmente si potrà smontare con semplicità, e questo farà infastidire i più. Il lavoro di De Mattei, inoltre, propone un punto di vista che o si condivide oppure si rifiuta. Le vie di mezzo non esistono e, a ben vedere, non sono nemmeno contemplate.
Fra i vari a portata di mano, preferisco adottare il termine “strumento”. Il libro di De Mattei è uno strumento quanto meno da consultare e da tenere vicino per la ricchezza e la precisione dei riferimenti, e comunque fonte di ulteriori dibattiti sul tema.
Davide Greco